giovedì 30 maggio 2013

La guerra che diventa arte


Pino Pascali, nato a Bari nel 1935 e morto a Roma nel 1968, si formò nell'ambito della cinematografia e della scenografia e trasportò queste sue competenze in ambito artistico, unite ad un’ironia sottile ma pungente; la sua produzione fu molteplice e passò dalla pittura alla scultura.

Abbracciando una posizione polemica contro l’infantilismo di ogni guerra, nel 1965 elaborò un ciclo di opere dedicate alle armi, che costruì con pezzi di ferraglia dismessa, assemblando residuati meccanici, tubi, carburatori Fiat, rottami, tutti uniformati dal colore mimetico e capaci di dare l’impressione di veri ordigni. Pascali ricostruì cannoni, bombe, mitragliatrici quasi in scala reale, ma inutilizzabili. E' il suo modo di ironizzare sulla guerra, di giocare ai soldatini: ci sono molte foto in cui l'artista, in perfetta tenuta militare, posa, con piglio imbronciato e serioso, ma con evidente ironia, vicino a queste grandi armi, le quali solitamente sono portatrici di morte, mentre qui diventano dei giocattoli di grandi dimensioni.


Pino Pascali, Natura morta (cannone semovente), 1965.


Decise di far diventare le armi degli 'oggetti d'arte, visto che la libertà di un artista consiste anche nello svincolare la forma dal contenuto. Le armi non sono più sinonimo di distruzione, si svuotano del loro significato e diventano qualcos’altro: un gioco, un’ironia, una presa in giro, come era stata, secondo l’artista, la guerra che aveva vissuto da bambino.


Pino Pascali, Missile colomba della pace, 1965.


Pascali mise così in crisi anche il linguaggio della scultura e vi introdusse il concetto dell’ambiguità: chi vede per la prima volta le sue creazioni è impaurito, non sapendo se possano far del male o se siano finte. La costruzione è certamente falsata in tutto: nell’estrema cura dei dettagli (improbabile caratteristica di armi reali), nelle dimensioni (il cannone è grande ma non a grandezza naturale), nella struttura, che sembra vera, ma in cui vi sono anche cartoni, metalli, pezzi di scarto e rifiuti. La guerra viene reinventata come a sottolineare che tutto è finto, tutto è un gioco, anche nell’arte.

 Per approfondimento, si visiti il sito della Fondazione Museo Pino Pascali.



Pino Pascali, Contraerea, 1965.

Pino Pascali, Mitragliatrice, 1965.


domenica 26 maggio 2013

Goethe, in un francobollo...


I francobolli sono dei documenti ufficiali e, pertanto, possono essere considerati delle fonti primarie per la  storia; spesso su essi vengono rappresentati monumenti, personaggi, luoghi o eventi che hanno o hanno avuto in passato una grande rilevanza.
Ho trovato qualche interessante francobollo relativo ad una personalità del passato che credo abbia molta attinenza con questo blog.


Francobollo raffigurante il quadro di Johann Heinrich Wilhelm Ritratto di Goethe nella campagna romana, 1787.




Johann Wolfang von Goethe (1749-1831) fu letterato e studioso vicino allo Sturm und Drang e al Romanticismo. Attraverso la sua ricerca filosofica arrivò ad affermare, in una prospettiva panteistica, l’accordo esistente tra natura e spirito, come tra mondo e Dio, tutti elementi profondamente collegati tra loro (vedi a tal proposito, sempre su questo blog, il post Tèchne e ars). Inoltre, secondo Goethe, nella natura agiscono forze dinamiche polarizzate, lo spirito e la materia, l’espansione e la contrazione, e tutto è regolato dalle leggi dell’attrazione e della repulsione. È qui particolarmente evidente l’interesse di Goethe per la scienza e per le nuove ricerche, soprattutto in campo chimico e fisico, a cavallo tra Settecento e Ottocento: tali elementi influenzarono tutto il suo pensiero filosofico e le sue opere letterarie.
Per esempio, nel 1774 uscì la prima versione scritta da Goethe del dramma Faust, rappresentante, appunto, un alchimista disposto a tutto pur di appagare la propria sete di conoscenza.
Ma l’interesse scientifico è ancora più manifesto nelle Affinità elettive (1809), libro tutto incentrato sulla chimica.
Nella parte iniziale del romanzo, il lettore assiste ad alcune conversazioni tra i protagonisti che discutono  di elementi chimici e di reazioni tra essi: ci sono sostanze che  si respingono e altre che si attraggono, sostanze che si mescolano perfettamente e altre che restano totalmente separate; tali conversazioni mettono a fuoco le leggi delle chimica, il modo in cui avvengono le associazioni e le separazioni, come mai ci sia, tra alcuni elementi, un'affinità elettiva, cioè una forma di relazione “con precedenza”, preferita ad un’altra. Nella parte successiva si vede come tali leggi chimiche possano essere sposate dall’ambito scientifico alla realtà e come possano interpretare le relazioni umane. Esiste dunque una “chimica dei sentimenti” che interpreta la forza attrattiva dell’amore e la repulsione tra istinto e dovere come leggi immutabili della natura, scientifiche.





Cerchio cromatico di Goethe.



Goethe si interessò ai colori, arrivando a formulare una propria teoria su essi e sulla loro percezione. Basandosi proprio su questa teoria Joseph William Turner dipinse il quadro Luce e colore o La teoria di Goethe, dedicato proprio alla studioso. (per approfondimento, vedi la pagina)

William Turner, Luce e colore. Il mattino dopo il diluvo, 1843.

Acquarello di Goethe sulla rappresentazione simbolica del magnete (Goethe-Nationalmuseum, Weimar)








sabato 25 maggio 2013

Tèchne e ars



Pittore delle Niobidi, Cratere attico, 460-450 a.C.
Visto che il legame esistente tra arte e tecnica è l'argomento fondante di questo blog, ragioniamo sul significato e sul campo semantico di queste due parole; partiamo dalle origini.
Aprendo un dizionario di Greco antico alla voce tèchne, trovo: "abilità manuale, tecnica, arte, mestiere, metodo teorico, lavoro, manufatto". Il vocabolo può essere collegato alla parola poiesis, cioè la  "produzione". Quindi,  questo termine indica fondamentalmente due tipi diversi di attività: in primo luogo, la trasformazione della natura per ricavarne un'opera; in secondo, l'applicazione di una conoscenza generale (teoria) ai singoli casi (pratica), ovvero ciò che noi oggi chiamiamo tecnica. In generale, quindi, tèchne può significare un sapere esperto dei mezzi adatti a qualsiasi attività; abbraccia arti e mestieri. (fonte)
 Analogamente, guardando alla voce ars, artis (che traduce tèchne), nel dizionario della lingua latina, leggo: "arte, opera d'arte, modo di agire, abilità, mestiere, teoria, cognizioni teoriche, trattato". La radice di ars, oltretutto, è la stessa di artus che ha significato di "strumento", "articolazione", "arto".
Dunque ars esprime la capacità di produrre oggetti, che si possono definire artistici, con abilità, secondo conoscenze consolidate e aventi basi teoriche.

La parola greca, cioè tèchne, ha donato la propria radice a "tecnica", quella latina, invece, è passata all'Italiano come "arte".
Come mai due parole, che per noi hanno una valenza ben diversa l'una dall'altra, erano intese dagli Antichi con un significato pressoché identico?
 E' questo un dualismo ben radicato in tutta la nostra cultura: secondo l'uso comune, infatti, si pensa spesso che la tecnica indichi qualcosa fatto seguendo regole precise, una produzione scientifica e razionale; l'arte è invece l'attività dell'irrazionale, dell'incontrollato, ed è svolta perlopiù da chi può permettersi "il lusso" di non lavorare.
Ancora nel Medioevo, ars designa le discipline (scienze) in cui si viene articolando il sapere, ossia il sistema delle "arti liberali" insegnate nelle scuole medievali: grammatica, retorica (tecnica di stesura di un discorso), logica (regole del ragionamento), aritmetica, geometria, astronomia e musica (teoria dell'armonia).
Riflessioni importantissime sul dualismo tra scienza(e sapere) e arte(e fare) appartengono a tutto il Romanticismo, movimento letterario, artistico e culturale nato a fine Settecento; Goethe, infatti, sostiene che, nel momento in cui l'uomo si rivolge alla natura e cerca di conoscerla, tramite l'intuizione intellettuale (che corrisponde a una conoscenza puntuale, non deduttiva), egli si eleva a Dio e diventa creatore della natura stessa; per Goethe non c'è dunque iato tra conoscenza e arte: capire la natura significa creare artisticamente.

Il punto focale della questione sta nella parola artigiano: egli è colui che produce oggetti, seguendo tecniche precise e assodate; alla fine del processo, di cui ha seguito tutti i passaggi, l'oggetto può essere identificato come una sua personale creazione, in cui lui ha messo parte della propria personalità, e che è diverso da quello creato da un altro artigiano. Ancora in Italiano, l'artigiano racchiude in sé il duplice significato che gli antichi attribuivano ad ars, di cui porta, infatti, la radice.
D'altro canto, con la nascita e lo sviluppo della produzione industriale e in serie, questo non è più verificato; spesso chi produce conosce solo una piccola parte delle azioni necessarie per arrivare alla prodotto finale, così come un operaio di fabbrica conosce, per esempio, come montare le porte di un'automobile, ma non sa come avviene la verniciatura della carrozzeria. All'operaio viene insegnato il meno possibile:  la tecnica per risparmiare tempo, la tecnica per fare meno fatica, etc. Nel sistema di fabbrica si perde la propria individualità; non si è creatori, ma esecutori, non contano né lo spirito né la personalità dell'addetto.
 E' quindi con lo sviluppo dell'industria, a scapito dell'artigianato, che le strade della tecnica e dell'arte si separano definitivamente, fino a potersi solo guardare da una certa distanza.
L'esempio, riportato da Adam Smith nel primo capitolo di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776), del sistema produttivo della fabbrica di spilli prova al meglio questa osservazione.



«Ho visto una piccola fabbrica di questo tipo dove lavoravano soltanto dieci uomini e quindi dove taluni di essi eseguivano due o tre distinte operazioni. Ma sebbene fossero poverissimi
e quindi scarsamente attrezzati delle macchine necessarie, essi potevano, applicandosi, fare tra tutti circa dodici libbre di spilli al giorno. In una libbra vi sono oltre quattromila spilli di
media grandezza. Quelle dieci persone potevano, quindi, fare complessivamente oltre quarantottomila spilli, faceva quindi in media quattromilaottocento spilli al giorno. Ma se avessero lavorato separatamente e indipendentemente, e se nessuno di
loro fosse stato addestrato a questo speciale mestiere, essi certamente non avrebbero potuto fare venti e forse nemmeno uno spillo al giorno ciascuno» 
WN 80-81

lunedì 20 maggio 2013

Il Futurismo e l'automobile


Lo spirito del Futurismo è profondamente legato alla tecnologia e al suo progresso; nacque come movimento letterario per opera di Filippo Tommaso Marinetti, per poi passare alla arti figurative, i cui esponenti principali sono Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Carrà.


Il Manifesto del Futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato il 20/2/1909 sul Le Figaro di Parigi, esprime appieno tutti i principi del movimento:  mito della guerra, della velocità, dell’elettricità, della città moderna e dinamica, rifiuto dell’antichità e del passato, orrore per il “passatismo” culturale.


Umberto Boccioni, Automobile, 1904
 
 

Il Futurismo è l’Avanguardia della tecnologia, della scienza, del progresso e della sua esaltazione, fino ai massimi livelli.  Icona indiscussa per poeti e artisti è stata l’automobile, ispiratrice del movimento stesso e protagonista del Manifesto sopra citato. Qui Marinetti con toni epici narra, infatti, di una sfrenata corsa in auto, terminata con una caduta in un fosso fangoso;  Marinetti ricoperto di fango, l’automobile rovesciata, una scena che per noi potrebbe risultare comica, ma che qui viene esaltata come momento glorioso:


Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l'estenuato borbottio, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell'ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.
[…] Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. lo mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco.
La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie, scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i vetri d'una finestra, c'insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi perituri.
Io gridai: «Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve
E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte, dal pelame nero maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo violaceo, vivo e palpitante.
[…] E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare. La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti, mandandomi, da ogni pozzanghera, sguardi vellutati e carezzevoli.
[…] Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su me stesso, con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda, ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contradittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno... Che noia! Auff!... Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all'aria in un fossato...
Oh! materno fossato, quasi pieno di un'acqua fangosa! Bel fossato d'officina! lo gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese... Quando mi sollevai - cencio sozzo e puzzolente - di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia!
Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi tumultuava già intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella gente dispose alte armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile ad un gran pescecane arenato. La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità.
Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una mia carezza bastò a rianimarlo, ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti!
Allora, col volto coperto della buona melma delle officine - impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti - noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra.


Giacomo Balla, Velocità d'automobile, 1912.


Giacomo Balla, Velocità d'automobile n1, 1913.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.         
dal Manifesto del Futurismo.

 






Giacomo Balla, Velocità d'automobile e luci, 1913.

In ambito futurista la macchina è un simbolo quasi mistico, nuovo centauro che riassume in sé i tomi eroici che un tempo venivano rivolti ai cavalli  coinvolti in battaglie epiche, degne dell’Iliade. Nel Manifesto, ad essa vengono riferiti termini come: Centauro, belva sbuffante, automobile famelica, pescecane; tutti simboli di forza, potenza e invincibilità. Di essa vengono esaltate le componenti, come il volante e i pneumatici, con particolare enfasi sulle parti metalliche ("scorie metalliche"), sul loro calore ("ferro arroventato della gioia"), che vengono accostate ad animali o a parti di essi. Per i futuristi, l'artificiale, ciò che è creato dall'uomo, prende il posto del naturale, elemento tipico del mondo antico, troppo diverso da un mondo moderno veloce, dinamico e in continua crescita, come rappresentato dal quadro La città che sale di Umberto Boccioni.

Umberto Boccioni, La città che sale, 1910.


Le parole del Futurismo sono tra le più forti mai usate per un movimento artistico; insieme a quelle sopra citate, l'esaltazione della velocità, della forza, della dinamicità, portano ad innalzare come ideali anche la lotta e la guerra; tra le righe del manifesto si leggono infatti frasi come:

7. Non v'è più bellezza, se non nella lotta. 
 9. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

Di fronte a tali espressioni, verrebbe da pensare che i futuristi fossero degli "esaltati", assetati di sangue, forse; personalmente penso che siano stati gli interpreti del sentimento generale dell'epoca. Le molte innovazione tecnologiche di fine Ottocento e inizio Novecento, convinsero le persone di trovarsi all'apogeo del progresso, di essere già nel futuro e di poter sfogare tutta la potenza acquisita con la scienza. I futuristi rappresentarono nell'arte lo stato d'animo dei popoli, quegli stessi popoli che nei primi anni del Novecento lasciarono, più o meno consapevolmente, che nascessero in tutta Europa regimi autoritari e dittatoriali, responsabili di grandi atrocità.
Dopo la battaglia di Sedan del 1870, l'Europa aveva attraversato un periodo di pace e equilibrio politico; la generazione cresciuta in quegli anni non aveva idea degli orrori della guerra, che era vissuta in senso romantico e patriottico, astratto. Quando nel 1914 si aprì lo scenario della Grande Guerra, lo spirito futurista ne fu, in molti sensi, una vittima. I ragazzi, entusiasti per le tecnologie avanzate, i loro materiali metallici, la loro potenza, andarono a sfidare impavidi una morte di cui in realtà non conoscevano il significato. molti dei primi futuristi morirono, altri subirono grandi traumi psicologici (Gillo Dorfles). I componenti del movimento furono poi tra i sostenitori del Fascismo e appoggiarono la Seconda guerra mondiale, anche per questo aspetto bisogna chiedersi se furono gli iniziatori di idee nazionalistiche e violente del regime di Mussolini o solo dei rappresentanti, specchi di un'intera società. Infatti, come sostiene lo studioso Gillo Dorfles, dopo la fine della Grande Guerra, la carica rivoluzionaria e creativa del movimento subì un radicale rallentamento, dovuto anche al modificarsi della situazione e alle mutate condizioni politiche; da quando prese il potere, il Fascismo cercò di limitarne la forza, tollerò il movimento ma non lo promosse mai, intimorito dall'importanza che esso dava alla rivolta e all'anarchia.


Gerardo Dottori, A 300 km sulla città, 1934.